Storie

Boris Becker, le vite dei campioni e i giornalisti che le raccontano

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Becker e Djokovic

Sulle bacheche dei miei amici di FB ci sono tante immagini di Novak Djokovic  che ha battuto Roger Federer in  finale a Wimbledon. Un match memorabile, l’ennesimo nella storia dei Championships. Ho avuto la fortuna di assistere a parecchie edizioni del torneo inglese quando lavoravo per il Tennis Italiano e devo dire che il fascino di quella competizione è unico e irraggiungibile. Giocatori, spettatori, organizzatori, giornalisti, addetti ai lavori lo sanno: durante il torneo, dentro i cancelli  dell’All England Club, si vive in  una dimensione di leggenda. Vincere Wimbledon consegna un tennista alla storia. Punto. Sarà campione per sempre.
Nelle immagini su FB ce n’era anche una di Djokovic e il suo attuale allenatore, Boris Becker. Stringevano insieme la Coppa. Becker, per chi è proprio digiuno di sport, ha vinto Wimbledon per ben tre volte (la prima, nel 1985 a neanche 18 anni), ed è stato uno dei più grandi tennisti del mondo. Era un atleta bellissimo, e non solo quando ci sorprendeva con i celebri tuffi a rete. Aveva un sorriso aperto ma uno sguardo inquieto che quasi gli scavava il viso.
Nelle foto accanto a Djokovic, quasi non l’ho riconosciuto.  E’ diventato un omone rubizzo, gli occhi incistati su un viso gonfio, il taglio di capelli assurdo. Si sa che dopo l’addio al tennis la sua vita non è stata un fiume tranquillo. Un divorzio molto oneroso, una figlia concepita in maniera rocambolesca e riconosciuta solo tempo dopo la sua nascita, un nuovo matrimonio e un altro bambino, qualche problema con il fisco. Sostanzialmente ora fa la celebrity. Lo sguardo, quello sguardo un po’ da pazzo che a certi cronisti ricordava Van Gogh, non c’è più.
Ho incontrato Becker nel febbraio del 1994 ed è stata una delle migliori interviste della mia carriera.  Mi concesse a sorpresa un “one to one”  subito dopo la vittoria del torneo di Milano contro Petr Korda. Per tutta la settimana aveva  negato interviste alla stampa italiana, perfino alla Gazzetta dello Sport. Io tentai un azzardo subito dopo il risultato della finale. Becker aveva giocato molto bene,  il pubblico di Milano si era divertito e lui sembrava di ottimo umore. Chiesi all’addetta stampa dell’Associazione dei giocatori se potevo intervistarlo dopo la conferenza stampa. Anna, che era una buona amica, mi disse: “Proviamoci. Al massimo dice di no”. Invece Boris disse sì. E mi fissò un appuntamento poco dopo, nel bar dei giocatori. Con lui c’era la moglie Barbara Feltus. Avevano avuto il loro primo  figlio solo poche settimana prima. Mi aspettavano dividendosi un panino. Li colsi in un momento magico della loro vita: un uomo e una donna innamorati. Lei bellissima, lui vincente. Un bambino che li attendeva in albergo, un volo privato che li avrebbe portati presto a casa.
Sei felice, vero?” attaccai. “Sì, perché so che durerà”, mi rispose Becker. Iniziò con delle pause piuttosto lunghe, quasi stesse elaborando lì per lì i suoi pensieri. “Ho vissuto forti emozioni nella mia carriera. Ho vinto Wimbledon a 17 anni. Sono diventato un campione riconosciuto da tutti. Ma tutto sfuma. E se ne va nel momento stesso nel quale realizzi il risultato. Poi devi ricominciare daccapo. E non è più uguale. Un figlio invece è qualcosa che hai ogni giorno, un figlio è per sempre. Questa è la vita vera”, disse guardando Barbara. Parlammo della sua carriera, della difficoltà di adattare il suo gioco alla terra rossa, del Roland Garros, il torneo del Grande Slam dove aveva sempre fallito (e che non vincerà mai). Mi disse che ci avrebbe provato ancora, come faceva ogni volta. Ma non affettò l’esaltazione che ci si aspetta da uno sportivo agonista.
Gli chiesi allora cosa si provava ad essere un campione, a possedere un talento così forte da segnare tutta un’esistenza. Gli domandai che cosa batte nel cuore e nella testa davanti a uno stadio osannante . Sorrise guardandomi con quegli occhi che allora erano inquieti, e mi disse che il suo era un conto alla rovescia: “E’ tutto legato alla nostra gioventù. Gli atleti, e ancora di più i campioni,  sono macchine regolate a tempo. Ora abbiamo tutto: successo, emozioni, grandi obiettivi. Ma la sfida più difficile arriverà dopo. Dovremo venire a patti con  la nostra vita a un’età nella quale i nostri coetanei iniziano a costruirsi un futuro”. Non era triste mentre diceva cose obiettivamente tristi sulla sua vita. Era calmo, mi raccontava di cose meditate.  “Mi fai pensare al titolo di un libro di Vittorio Gassman, un grande attore italiano – gli dissi – . Si chiama Un grande avvenire dietro alle spalle”. “Non lo so se sarà così anche per me,  ma è un gran bel titolo”. L’intervista finì davvero qui. Poi parlammo di tennis.

E’ una strana condizione quella dei giornalisti di sport. Ci capita  l’avventura di vivere fianco a fianco con i campioni. O almeno di essere testimoni della nascita, della crescita, dell’affermazione dei loro talenti. E poi di dovere inevitabilmente assistere e raccontare i primi cedimenti, le prime avvisaglie del declino, fino ai momenti, sempre dolorosi, del ritiro. Loro, i campioni che ci danno da scrivere, che alimentano le nostre storie, consumano la loro parabola in pochi anni di giovinezza davanti ai nostri taccuini. Ci  regalano la loro vita. Non c’è articolo, per quanto ben fatto, che valga questo scambio.

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