Non vedevo l’ora di raccontarvi la storia di Lorella Usai. Sono suoi gli scatti più belli dei post che trovate nel blog negli ultimi mesi. L’ho conosciuta da Gogo&Company, dove lei sorrideva dietro al bancone del bar. Lorella è la mamma di Tosca, con il marito Danilo titolari di una libreria caffè che è un punto di riferimento irrinunciabile nel mio quartiere. È stato facile, mentre mi preparava un cappuccino spolverato di cacao, entrare in confidenza con lei: ci uniscono la stessa età e tanti interessi, come la comune passione per la fotografia. Mi aveva detto che stava frequentando un corso da un fotografo e, guardando i suoi scatti sul profilo Instagram, ho riscontrato una sensibilità che mi sembrava molto adatta al blog. Così, sapendo che voleva alleggerirsi un po’ dell’impegno in libreria, le ho chiesto se le andava di collaborare con me. L’entusiasmo con il quale Lorella ha accettato la mia proposta ha fatto il resto e così, dallo scorso gennaio, ci siamo trovate spesso a raccontare, ognuna con il suo linguaggio, le storie di lamiacameraconvista.
Non sapevo però che la più bella fosse proprio la sua. Ed è una storia scoperta per caso, dopo la visita a una galleria d’arte che esponeva le opere di artiste cresciute ai margini della società, in condizioni di grande disagio economico e sociale. Lasciando la mostra, avevo notato che Lorella era stranamente silenziosa e le ho chiesto se andasse tutto bene. “Sono molto turbata – ha ammesso -. Le cose che ho visto e le storie che ho sentito mi hanno riportato indietro, ai ricordi della mia infanzia”.
Incalzata dalle mie domande, ha cominciato a raccontarmi una storia difficile da immaginare per me che avevo di lei la percezione di una donna solare, animata da un’energia positiva verso le persone e la vita di tutti i giorni. Una storia di sofferenza e privazioni che Lorella teneva nel cuore da tempo e che ha cominciato a liberare proprio con me, che quella mattina, sui sedili del tram 14, l’ascoltavo in silenzio.
C’è voluto del tempo prima di chiederle di poterne scrivere sul blog: a farlo mi ha spinto la convinzione che la sua sia una storia che vale la pena di essere raccontata, di una donna coraggiosa che ha lottato e vinto contro le difficoltà, conquistando una vita piena, fatta di affetti, amici, interessi e, soprattutto, certezze.
Una vita cominciata tremendamente in salita quando Lorella è rimasta orfana di padre a soli 9 anni. Lei e la sua famiglia, emigrati dalla Sardegna, erano appena arrivati in Brianza. Era l’estate del 1968, l’anno dello sbarco di Neil Armstrong sulla Luna: agli occhi di Lorella il loro viaggio dalla Sardegna era l’approdo su un altro pianeta.
“Mio padre Benedetto è morto d’infarto tredici giorni dopo essere arrivato con tutti noi da Nurri, allora in provincia di Nuoro: aveva 59 anni, ed era appena entrato in pensione dopo una vita da portalettere. Aveva deciso di lasciare la Sardegna con la speranza di dare un futuro a noi figli. È morto prima di ricevere il primo assegno. Noi ci siamo trovati nel panico, con mia madre vedova a 50 anni con nove figli, di cui solo tre fuori casa perché sposati. Il più grande di noi aveva 20 anni ma dovette partire subito militare perché, nonostante la morte di mio padre, la sua domanda di capofamiglia non era stata accolta. Seppellimmo mio padre in Brianza dove riposa ancora adesso, una terra che ha conosciuto per pochi giorni. Non avevamo casa e per i primi tempi siamo stati ospitati da un mio fratello sposato”.
Una situazione difficilissima. Come ve la siete cavata?
“Ci ha aiutato la Chiesa e il parroco, dopo la segnalazione di vicini di casa, ricavò per noi una sistemazione di fortuna in un convento diroccato. Le condizioni del convento erano fatiscenti, mancavano anche le porte. Dopo un po’ i volontari dell’oratorio ci portarono in una cascina dove, anche se mancavano i servizi igienici, c’erano condizioni minime di abitabilità. Occupammo una porzione di casa, due locali e la cucina.”.
Tua madre cosa faceva?
“Mia madre era smarrita, non aveva la forza di seguirci. Eravamo noi a badare a lei. La morte di mio padre, al quale era stata legata da un rapporto molto saldo, l’aveva annichilita. Prima di questo lutto, che lei ha portato tutta la vita, ricordo la nostra come una famiglia perfetta, un’infanzia felice, impostata sul gioco, sulla sicurezza degli affetti. La morte di mio padre è stata una catastrofe. Lei era caduta in una profonda depressione, noi figli ci sentivamo responsabili di nostra madre. Anche per questo, per darle una mano, ci siamo trovati di fronte alla scelta di smettere molto presto di andare a scuola”.
Immagino che ambientarsi in Brianza non sia stato facile.
“Proprio no: eravamo emigranti, mi chiamavano Sudafrica e le mamme delle mie compagne non mi permettevano neanche di entrare in casa. Con il tempo, però, sono riuscita a integrarmi e farmi volere bene, a creare amicizie che ancora conservo. Ci sono riuscita ignorando le offese e ridendo delle prese in giro. Mi ha aiutato il mio carattere: non ho mai dato modo di farmi davvero ferire, di mostrare quanto ci stessi male. Sai, dopo quello che ci era successo, era subentrato in noi un forte senso di responsabilità e la strana sensazione che ormai niente potesse farci davvero male: ci sentivamo più forti”.
Come te la cavavi a scuola?
“Non bene! Avevo sempre la testa fra le nuvole, con la preoccupazione costante per la condizione di mia madre. Mi angosciava non era tanto la povertà, il freddo in inverno, la mancanza di giocattoli che non ho mai avuto, ma la paura che a un certo punto mancasse pure lei. Era il mio pensiero più buio. Non avevo la serenità per andare bene a scuola. E comunque, a 13 anni, ho sentito il dovere di contribuire alla famiglia, di rendermi almeno autonoma economicamente. Mio fratello tornato da militare non trovava lavoro e avevamo una sorellina disabile. Senza che mia madre lo sapesse, a metà della terza media, ho lasciato la scuola per il mio primo impiego in una sartoria. All’inizio venni assunta in nero e quando arrivavano i controlli mi dovevo chiudere in bagno. Ci sono rimasta due anni. Quando ho partecipato a uno sciopero per conservare i nostri posti di lavoro, hanno cancellato la mia assunzione dal libretto di lavoro. Sono andata dalla sindacalista ma non ho trovato nessun appoggio”.
Quanti anni avevi?
“Solo 15 anni ma ormai avevo capito che dovevo cavarmela da sola e trovai un altro lavoro in una tessitura. Nel frattempo mia madre non riusciva a sollevarsi dalla depressione e aveva deciso di tornare in Sardegna. Mi propose di seguirla ma io non me la sentii. Mi lasciò quindi in Brianza con una sorella più grande. La scelta di mia madre fu un altro trauma che generò tanti sentimenti contrastanti. Era come se la nostra condizione a quel punto fosse diventata davvero evidente in tutta la sua drammaticità. Da un lato capivo la necessità della sua decisione, cercavo anche di difenderla, ma dall’altro mi domandavo come mia madre avesse potuto lasciarmi sola. Ho vissuto la sua scelta come un tradimento. Mi ci vollero anni per superarlo e mettere da parte il risentimento. La convivenza con mia sorella del resto non funzionò e quindi me ne andai a Milano, a servizio presso una facoltosa famiglia della città che già impiegava un’altra delle mie sorelle. Avevo 16 anni e mezzo, trovai un lavoro fisso e una sistemazione nella loro casa. Aiutavo la guardarobiera nelle faccende. La signora beveva e di notte irrompeva gridando nelle nostre stanze ma il signore era molto gentile, direi paterno”.
Rivedevi tua madre?
“Sì, quando per le ferie tornavamo in Sardegna. Il ritorno in paese era diventato bello, la condizione famigliare era migliorata, mia madre si era ripresa ed era di nuovo la donna affettuosa che ci era tanto mancata. Quando tornavamo a Milano si ripiombava nella condizione di emigranti”.
Quando hai conosciuto tuo marito?
“Nel 1979. Anche Franco era di origine sarda, anche lui , come me aveva alle spalle povertà e una storia famigliare difficile. Ci siamo conosciuti tramite una cugina. Abbiamo unito le nostre forze e dopo sei mesi siamo andati a vivere insieme. La notizia venne presa malissimo dalla mia famiglia, soprattutto da mia madre che voleva riportarmi a casa ma questa volta mi ribellai. Andammo a vivere in una camera ammobiliata in via Settembrini, poi in un appartamento ad Affori”.
Ed è arrivata Tosca, vero?
“Sì, dopo tre anni di convivenza. La nascita di Tosca fu una grande gioia, ci sposammo quando lei aveva quattro mesi. Smisi di lavorare, Franco con il suo lavoro in una ditta di escavatori guadagnava bene. Ma non durò, erano anni di crisi e lui rimase disoccupato quando la bambina era piccola. Per qualche tempo siamo ripiombati nelle difficoltà che credevamo di esserci messi alle spalle: figurati che mio marito per guadagnare qualcosa pescava ricci nel mare della Liguria per rivenderli al mercato comunale! Da parte mia non mi diedi per vinta: ogni mattina, alla stessa ora, tampinavo al telefono una signora che amministrava condomini per chiedere un lavoro da custode. Lei apprezzò la mia perseveranza e mi trovò una portineria in via California anche se era solo per mezza giornata. Nel frattempo Franco aveva trovato lavoro in un cantiere per una ditta che però andò in fallimento e quindi mise tutti in cassa integrazione. Fortunatamente alla fine ci si presentò la possibilità di un portierato in Via Donati: cercavano una coppia e noi eravamo del tutto disponibili ma dovevamo superare la resistenza dell’amministratore che ci riteneva troppo giovani. Quando ci presentammo all’assemblea dei condomini, io presi il coraggio a due mani e letteralmente li pregai di darci una possibilità e di metterci alla prova. Li convinsi e quel gesto di disperazione ci salvò la vita. Da allora in poi abbiamo avuto la possibilità di allevare Tosca nel migliore dei modi, di vivere in una casa accogliente, di essere apprezzati dalla grande famiglia dei nostri condomini”.
Poi sei venuta qui da Gogol…
“Tosca e Danilo nel 2010 hanno aperto la loro libreria. Ho iniziato dando una mano per sostituire un dipendente al bar e dopo otto anni, eccomi ancora qui! Mi piace moltissimo stare in libreria. Il bancone per tanto tempo è stato il mio teatro ed ora che l’ho lasciato un po’ ne sono gelosa. Qui ho potuto conoscere tante persone, alcune anche importanti, con le quali ho un rapporto vero. Questo posto è stato il mio riscatto”.
La passione della fotografia è iniziata qui?
“No, tanto tempo fa, quando da ragazza andavo in giro a fare scatti con una Polaroid bianca. Credevo di averla persa nel trasloco di mia madre a Nurri. E invece, un giorno di sei anni fa, poco prima di morire, mia madre si offrì di darmi alcuni degli oggetti a cui teneva e, tra orologi e piccoli gioielli, estrasse dall’armadio la mia macchinetta fotografica. Non so dirti cosa ha rappresentato per me quel gesto. Mi ha procurato un’emozione profondissima che mentre la racconto, per il suo significato sentimentale e simbolico, ancora mi commuove. Ora ho regalato la Polaroid a Tosca ma il gesto di mia madre mi ha riavvicinato alla fotografia. La libreria è un ambiente molto stimolante, qui sono state organizzate delle belle mostre. Ho seguito con orgoglio Tosca quando lavorava al magazine Gioia come giornalista. La fotografia è una passione condivisa. Ho frequentato per un po’ un corso fotografico ma mentre lo facevo mi sentivo imbrigliata, come se un eccesso di ricerca tecnica togliesse spontaneità alla mie immagini. L’ho lasciato a metà, preferendo una formazione da autodidatta. Quando scatto una foto devo sentire l’emozione, un qualcosa che si muove nello stomaco, che accende i miei occhi. Studio tanto sui libri dei grandi fotografi, seguo le mostre: ammiro Franco Fontana e Ferdinando Scianna. Amo il bianco e nero, ricerco la geometria nelle immagini, la magia dei volti delle persone che mi piace cogliere in situazioni spontanee. Se ho un vero dono, è quello di “sentire” le persone e le loro emozioni, di avvertire i loro pensieri, una dote che in certi episodi della mia vita ha sfiorato la preveggenza. La fotografia è quasi una testimonianza di questa mia empatia: ascolto, osservo il linguaggio del corpo e attendo il momento giusto nel quale la persona si rivela”.
Senti, ma perché fotografi sempre i cuori?
“I cuori sono la mia fissa, ne vedo la sagoma dappertutto, dalla forma delle nuvole e quella di una pozzanghera. Dentro di me rappresentano il contatto con mia madre. Lei non credeva in una vita oltre la morte, diceva sempre che paradiso, purgatorio ed inferno avvengono tutti su questa terra e forse un po’ aveva ragione. Però io le avevo confidato che non sopportavo l’idea di non rivederla più e le feci promettere che, se ci fosse stato qualcosa nell’aldilà, di inviarmi dei segni. Mi assicurò che in qualche maniera avrebbe trovato il modo di farmelo capire. Quando è mancata sei anni fa io ero a Milano e non riuscii ad arrivare in tempo per esserle vicino, ma quel giorno vedevo cuori ovunque. Da allora mi succede molto spesso. Quest’estate, quando siamo tornati tutti in Sardegna per le vacanze, non riuscivo più vederli con la consueta assiduità. Però per me lo facevano Tosca e mia nipote Anna: “Guarda nonna – mi diceva mentre raccoglieva una conchiglia in spiaggia – ho visto un cuore!”.
7 Comments
Fabrizia
12 Settembre 2018 at 7:20Ho conosciuto Lorella da Gogol e mi ha subito ispirato grande simpatia. La sua dolcezza nel conversare con la mia anziana mamamma, la sua delicata disponibilità nell’accogliere tutta la mia famiglia quasi ogni domenica di qualche anno fa, sono ricordi ancora viivi. Grzeie per la sua storia, Paola, spero di rivedervi presto entrambe.
Paola
12 Settembre 2018 at 7:27Grazie a lei Fabrizia, Gogol è un posto speciale. Sarà bello incontrarsi insieme li’. A presto.
Paola
11 Settembre 2018 at 16:18Una storia affascinante, l’ho letta d’un fiato, quasi incredula che esistano esperienze così. Una vera ricchezza conoscere una donna come Tosca, e tu Paola l’hai presentata in modo davvero commovente. Grazie
Paola
11 Settembre 2018 at 18:03La prossima volta che ci vediamo da Gogol prendiamo un caffè con Lorella, ok?
Pendolante
11 Settembre 2018 at 8:58una storia drammatica, eppure bellissima nel sua forza e tenacia e riscatto. Sembra ambientata all fine dell’800 e invece è così vicina a noi. Mi ha commossa
Paola
11 Settembre 2018 at 10:01Grazie, è una storia che mi è piaciuto tanto raccontare
Tratto d'unione
11 Settembre 2018 at 8:49Grande donna!